In Inghilterra, Germania, Svizzera e Francia i vegetariani proclamano, sia per principio di morale, o di religione, sia a scopo sanitario l'astinenza d'ogni sorta di carne. Invocano, in loro aiuto, la conformazione naturale dei denti e della mascella umana, e vogliono che l'uomo possa viver bene, anzi meglio e più lungamente, contentandosi puramente di quanto la Provvidenza fornisce nel regno vegetale. Abborro ogni disputa e lascio il mondo come l'ò trovato, tanto più, che l'esperienza mi convince, che ogni disputa non serve che a far perdere l'appetito, ci arrischia il regalo d'una malattia di fegato e poi ci lascia più cretini di prima. Nè, vo' soffermarmi un solo secondo alla questione dei denti e della mandibola umana. Se, da che mondo è mondo, si mangia carne e verdura, è segno che la Provvidenza ci à dato denti sì per l'una che per l'altra. Chi ama la carne non disprezzi il fratello che vuol nutrirsi di erba, e costui tolleri cristianamente che l'altro appaghi l'appetito col manzo e si divori delle costolette. La teoria e la pratica sono due sorelle che non si sono mai vedute e che forse, in questo mondaccio, sono destinate a non incontrarsi nè abbracciarsi mai. Peccato, perchè la prima è bella, affascinante, da far perder la testa, la seconda d'una bontà e d'una utilità impareggiabile! Ma lasciamola lì, che ognuno viva, dunque, a suo modo, in santa pace e che Domineddio ci benedica tutti!
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di fegato e poi ci lascia più cretini di prima. Nè, vo' soffermarmi un solo secondo alla questione dei denti e della mandibola umana. Se, da che mondo
In generale tutti gli erbaggi dell'orto che voglionsi conservare, devono essere raccolti di recente e ben maturi. Le piante e le radici succose si devono prima scottare, immergendole nell'acqua bollente per qualche minuto, poi conviene gettarle nell'acqua fresca, asciugarle e farle disseccare o al sole, o al forno; preferite il forno. Gli erbaggi si tagliano a pezzi, si mondano, e si dispongono su graticci, così preparati si mettono ad essiccare, e si conservano in luogo fresco e ventilato. I legumi che si essicano per l'inverno, spesso vengono avariati dagli insetti. A riparare tal malanno lavate i vostri legumi nell'acqua fredda appena colti, e fateli seccare perfettamente al sole. Tutti gli insetti già sviluppati nei legumi ne sfuggiranno e quelli che non lo sono ancora non si svilupperanno altrimenti. A cocere più presto le rape e le carote, devono essere tagliate per il lungo, e a far perdere l'odore troppo forte delle cipolle, pei delicati, sarà bene metterle per un momento nell'acqua calda salata, avanti cucinarle. Finisco con due parole sulla digeribilità. Quante calunnie si son dette, si dicono e si tramandano sul valore digestivo di questi eccellenti prodotti della vegetazione! Il tale, la tale non può digerire i fagioli, il citriolo, l'aglio, la cipolla, le castagne, ecc.; dunque sono indigesti, e si dà la colpa a questi poveri innocenti che nascono per la salute e conservazione nostra! Nè solo si accontentano, quel tale e quella tale di calunniarli, ma li proscrivono dalla loro casa e ne predicano l'ostracismo ai figli, ai parenti, agli amici e guardano biechi chi fa loro orecchie da mercanti. No, la colpa è dello stomaco di questi tali signori e di queste tali signore. Ma lasciateli, se vi fanno male, non diteli indigesti. Lo sono per voi, per altri sono invece tanta bona nutrizione e beata salute. Come abbiamo tutti una faccia nostra, così tutti abbiamo il nostro stomaco, che è un vero laboratorio chimico, una vera officina di acidi e di sughi chilifici. E chi ne à bisogno uno e chi un altro — a chi ne sopravanza di quantità, a chi ne manca di qualità; e l'istinto, il gusto, l'appetito, ci suggeriscono appunto ciò che ci è necessario ad equilibrare ed ordinare le funzioni del nostro individuo. Perchè voi siete brutto non vuol dire che tutti sieno brutti. Ah! quel benedetto io, che è padre dell'assoluto e dell'intolleranza!
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questi poveri innocenti che nascono per la salute e conservazione nostra! Nè solo si accontentano, quel tale e quella tale di calunniarli, ma li
Voi direte: ma lo dicono i medici; ma sta scritto in, tanti libri; ma è credenza universale e popolare. I medici! Lasciate che dicano e disdicano — la loro dogmatica e la loro casistica è conosciuta e stravecchia. A questo mondo non vi è nulla di assoluto: tutto è relatività. Il medico vostro sia il vostro istinto naturale e se qualche cosa vi è indigesta, datene colpa alla vostra ghiottoneria, all'ingordigia vostra. Quante verdure da fanciulli ci ributtano e ci tornano poi ghiotte, in altra età! Ditemi, perchè i fanciulli amano tanto i frutti acerbi ed acidi? L'età, la complessione, il genere di vita, la temperatura, il caldo, il freddo, l'umido, il secco, anche le passioni, tutto combina a formare questa relatività che è solo giudicabile da ciascuno di noi. — Sta scritto in tanti libri! — Vi rispondo col detto di Talleyrand:
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genere di vita, la temperatura, il caldo, il freddo, l'umido, il secco, anche le passioni, tutto combina a formare questa relatività che è solo giudicabile
Che pel 1200 ve n'era nel convento di Santa Sabina a Roma, che quasi nello stesso tempo si diffuse nel napoletano e nell'isola di Sardegna, e che precisamente verso il 1300 cominciò ad essere coltivato in grande. I Genovesi furono i primi che presero a moltiplicarlo e a farne commercio. Nel 1510 esisteva in Francia un solo arancio, stato seminato a Pamplona nel 1421 e che vive ancora nell'agrumiera di Versailles. Il proverbio dice: «L'arancio, alla mattina è oro — a pranzo medicina — la notte veleno.»
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esisteva in Francia un solo arancio, stato seminato a Pamplona nel 1421 e che vive ancora nell'agrumiera di Versailles. Il proverbio dice: «L'arancio
Arboscello odoroso annuale, originario dalle IndieOrientali e dalla Persia. Ve ne sono 22 varietà. Tra queste il Grandiflorum (dall'Africa), che è perenne, e il Minimum annuale dell'Isola di Ceylan. Generalmente si coltiva la specie Ocymum. La Minimum però, è la più graziosa. Nel linguaggio dei fiori: Odio. Si semina in aprile e maggio, in buona terra, esposizione meridiana. Il seme germina fino ad 8 anni. Tanto i fiori che le foglie servono per condimento, per confettura e anche per profumo. È molto usato nella cucina genovese. In Persia se ne usa per aromatizzare le bibite. Crisippo lo reputava non solo inutile, ma eccitante l'insania, e come era disprezzato dalle capre, doveva fuggirsi dagli uomini. E così predicò Galeno, ma i popoli della Mauritania lo avevano per un'esilarante. Il Basilico selvatico, detto Brunella (Brunella vulgaris officinalis), è vantato nelle malattie degli organi respiratorii e nella diarrea. Messe le foglie nell'insalata, si voleva guarisse le emorroidi. Dal Basilico se ne cava un'olio essenziale. I Genovesi lo conservano nell'olio in vasi o alberelli ben chiusi. E fanno così: pigliano il basilico fresco, lo lavano per pulirlo dalla terra, l'asciugano con una salvietta, vi distaccano le foglie, gettano via i gambi e lo pongono in un alberello che si riempie d'olio e si chiude ermeticamente. Così conservato, mantiene tutte le sue qualità aromatiche, nè si distingue da quello fresco.
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reputava non solo inutile, ma eccitante l'insania, e come era disprezzato dalle capre, doveva fuggirsi dagli uomini. E così predicò Galeno, ma i popoli
La Coffea Arabica è un grazioso arboscello, ramosissimo, sempre verde, originario dall'Arabia e particolarmente dall'Abissinia Galla e Kaffa, dove anche oggi si trova allo stato selvaggio. Dà fiori candidi, olezzanti in luglio ed agosto, simili a quelli del gelsomino di Spagna. Ai fiori succedono bacche rosse come le ciliege, che maturano 4 mesi dopo la fioritura e che racchiudono due grani o semi che sono quelli che tosti[mo, e che ci danno la deliziosa bevanda del caffè. Questi semi quando sono verdi e maturi sono circondati da una polpa dolcigna bona a mangiarsi. Si propaga per seme. Da noi è pianta di serra calda. Nel linguaggio dei fiori e piante: Allegria. Numerose le varietà del caffè, che prendono il loro nome non solo dalla differenza specifica, ma dalla provenienza commerciale e geografica. Generalmente tutte queste varietà si riferiscono a tre tipi: Molta, Borbone e Martinica, che da noi è sostituito col Porto Rico. Il migliore caffè è quello che proviene dalla sua patria primitiva, ma rarissimamente giunge in Europa. Il Moka, o Levante (dal nome del suo antico porto di esportazione) è un prodotto del Yemen montuoso, il suo colore ricorda quello del the e questo pure rarissimamente ci perviene. È consumato quasi interamente in Turchia, in Asia, in Persia ed in Egitto. Quello che perviene a noi sotto il nome di Moka, è Moka di Zanzibar, di Aden e di Giava, a piccoli grani, accuratamente scelto.
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noi è pianta di serra calda. Nel linguaggio dei fiori e piante: Allegria. Numerose le varietà del caffè, che prendono il loro nome non solo dalla
chiedono una speciale attenzione. Tostate il vostro caffè nel tamburino a carbone, non alla fiamma, adagio prima perchè si scaldi, poi in fretta perchè non bruci. Quando comincia a tramandare quel sudore che lo rende lucido, toglietelo in fretta dal tostino, perchè l'aroma, mercè il grado di calore subito, fa capolino dai tessuti legnosi, nella forma, comune a tutte le essenze, di olio essenziale, che è appunto quel sudore lucente. Se l'aroma, che è volatile, sorte, lo godrà il naso, non la bocca. Quel sudore non deve escire assolutamente. Non lasciatelo scappare, ritirate il vostro caffè che sia di un biondo foncè, color tabacco de' frati. Quando è nero, è bruciato, e bruciato è carbone, e col carbone non si fa caffè. Versatelo distendendolo, fatelo raffreddare più presto che potete. Più presto si raffredda, tanto meno aroma si disperde. Il freddo è nemico capitale dell'aroma. Tostato e freddato mettetelo chiuso in vaso o stagnata, in luogo asciutto e volta per volta macinatene il solo bisognevole, come volta Per volta tostatene solo il bisognevole. La bollitura è quella che dà l'ultima mano a sprigionare l'aroma, a separarlo dal seme. Aspettate che l'acqua sia bollente a mettervi il caffè, rimescolando un po' — pochi bolli solamente — e via dal fuoco, copritelo. Tre piccoli cucchiai ben colmi generalmente bastano per una tazza. Certo che con poco si fa poco, come con niente si fa niente. Più caffè adunque più aroma e sapore. Il caffè riesce come lo si fa — è un assioma. Il recipiente in cui deve subire l'ebollizione sia d'una pulitezza da cristallo, senza odore di sorta (guardatelo da quel tanfo di chiuso, che è una cosa orribile), non c'è cosa come il caffè per assumere qualunque piccolo odore è delicatissimo. Quando il caffè è buono, fresco, tostato convenientemente, messo in dose giusta e fatto bollire come sopra, farete un caffè squisitissimo anche nel paiolo della massaia. Ma più lo si custodisce e lo si rinchiude, più conserva la natia virtù. Furono inventate mille fogge di macchinette da caffè, a infusione ed a pressione, razionali ed irrazionali, ma quella a pressione atmosferica, quale attualmente si trova presso quasi tutte le famiglie, è la migliore per comodità, poco costo e semplicità. Tale macchinetta, divenuta popolare, fu perfezionata nel 1856 da monsignor Giuseppe Nicorini, Canonico Ordinario della Metropolitana di Milano. Mercè un tappo a smeriglio, si fa salire l'acqua bollente allo staccio superiore, dove s'è messo il caffè, lo vi si lascia bollire un po' e ritirata, mercè il vuoto successovi, precipita il caffè limpido, saporitissimo. Si abbia però avvertenza: 1.° a mettere il caffè sul piccolo staccio solo quando il vapore sorte a sbuffi dallo spiraglio; 2° a tappare lo spiraglio appena vi si è messo il caffè; 3.° a tappar bene e non levare il tappo avanti sia precipitato il caffè, perchè se penetra un po' d' aria, addio vuoto! Allora depone con tutto suo comodo. Ricordatevi dunque, che il caffè si fa col caffè, che il caffè è una cosa di lusso, non è necessario. Non fate caffè gramo, è un vero delitto. Bando assoluto a qualunque sorta di ciurmeria di caffè. Se litigate colla borsa, bevetelo di rado, ma bono, ma fresco, ma che sia vero caffè. Non offrite mai caffè gramo. Una tazza di caffè perfido, è un sacrilegio — e oltre l'insulto che reca alle papille olfatorie e gustatone, oltre i disturbi epatici dei quali può essere potentissima causa, può decidere moltissime volte dell'onorabilità di casa vostra, della stima di una persona, della rottura d'un'amicizia. Il caffè non deve essere mai fatto dalla servitù — deve essere esclusivo monopolio della padrona o della padroncina di casa. Pour la bonne bouche.— Sentite cosa ne disse Delille:
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e freddato mettetelo chiuso in vaso o stagnata, in luogo asciutto e volta per volta macinatene il solo bisognevole, come volta Per volta tostatene
Il Carciofo, della famiglia dei cardoni, è un caule di 5 o 6 piedi, biennale, indigeno. Vuole esposizione meridionale, essere difeso dai freddi, terreno lavorato, asciutto, ricco. Ama molt'acqua, il gelo l'uccide. Si propaga per semi, getti, o meglio per polloni dei vecchi carciofi, in marzo ed aprile ed anche in maggio, in luna vecchia. Nel linguaggio delle piante: Sei noioso. Il seme conserva la sua virtù produttiva fino a sei anni e più. È una verdura delle più delicate, sana, saporita e ghiotta. Quello che si mangia è il fiore immaturo, che è fatto a scaglie ed à la figura d'una pigna. Sono rinomati quelli di Genova, migliori quelli di Sardegna. Si mangiano tenerelli crudi con pepe ed olio, per antipasto, cotti all'olio, al burro, si lessano, si friggono impannati alla padella, alla grata, si accoppiano ad ogni piatto, ai quali servono anche di elegante e saporito ornamento. Sono nutrienti e contengono molto tannino. Se il carciofo è giunto alla sua perfetta maturanza e grossezza normale, lasciatelo riposare due giorni prima di mangiarlo, sarebbe troppo irritante. Va lavato in grand'acqua, e messo a cocere in acqua bollente e salata, coperto solo per tre quarti, non lasciarlo stracocere. Il carciofo cotto all'acqua, freddo che sia, è eccellente coll'olio. Dei ricettacoli del carciofo cavasi amido.
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mangiarlo, sarebbe troppo irritante. Va lavato in grand'acqua, e messo a cocere in acqua bollente e salata, coperto solo per tre quarti, non lasciarlo
il suo nome da Bresic, cavolo. È la pianta erbacea, annuale indigena che tutti conoscono. Vuole terreno lavorato, esposto, teme più il caldo che il freddo. Nel linguaggio delle piante: Cecità. Ve ne sono tante varietà, di precoci e di tardive. Le precoci si seminano in febbraio e marzo per averli nella state, le tardive in aprile e maggio, si trapiantano in agosto, si raccolgono in autunno e nel verno; a salvare i cavoli dal bruco (gattine) circondarli da striscie di fusti di canapa. i semi del cavolo mantengono la loro virtù germinatrice per 6 e più anni. La varietà del Gambùs (forse dal francese Choux Cabus) Brassica oleacera capitata, è meno saporita. Anche del Gambùs molte varietà. È distinto quello detto Cavolo Cappuccio di Schweinfurth a testa enorme, a fusto cortissimo — merita d'essere introdotto da noi per la sua straordinaria grossezza, precocità e certa squisitezza. Non è a metter da parte quello di Bruxelles a getti e a mille teste, che à fusto elevato, intorno al quale sporgono tante verzette, ricercate per delicatezza di gusto in minestra, o per guarnizione. In Lombardia il paesello di Verzago, ripete il suo nome dalle verze che vi abbondavano saporite e rigogliose. Molto stimati in Francia i choux de Milan (B. ol. Bullata). Il cavolo si mangia in cento maniere — nelle minestre — nelle zuppe — in insalata — si mette negli intingoli — serve ad accompagnare i salsicciotti — a far polpette — si condisce come gli spinacci all'olio, al burro aggiungetevi delle bacche di ginepro — se ne fa la così detta versata. Il cavolo è più saporito quando à sentito i primi freddi. Non si deve tagliare col coltello, ma strappare le foglie colle mani, perchè il ferro gli toglie sapore e comunica cattive qualità. Troppo cotto è tenuto come indigesto e flattulento. Ama molto il burro e specialmente il lardo, va d'accordo colla carne di porco. Iacopo Albertazzi vuole che i cavoli si conservino meglio e più saporiti a seppellirli nella terra coll'occhio e le foglie rivolte all'ingiù e le radici all'insù (lib. III, 54). Da solo il cavolo vale niente, onde il proverbio: El var un càvol, una sverza, per dire che vale nulla. I cavoli crudi servono alla preparazione di quelli erbacei fermentati che si conservano e si mangiano chiamati SauerKraut (erba acida) cibo prediletto dei Tedeschi e del quale Marziale:
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seppellirli nella terra coll'occhio e le foglie rivolte all'ingiù e le radici all'insù (lib. III, 54). Da solo il cavolo vale niente, onde il proverbio: El
Sebbene il depravato gusto, o la bisogna Fan, che si mangi in villa la scalogna, Fuggir si deve come ria carogna, E lasciarla a chi suona la zampogna. Chi ne mangia, assai dorme e mal si sogna, Si lamenta del capo e de la rogna; Il dir ch'abbia virtude è una menzogna: Solo à di bon che rima con Bologna.
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. Chi ne mangia, assai dorme e mal si sogna, Si lamenta del capo e de la rogna; Il dir ch'abbia virtude è una menzogna: Solo à di bon che rima con
L'abuso, anticamente, non solo si credeva regalasse coliche, ma procurasse sudore e generasse pidocchi, rogna ed altre sordidezze. Generan anche i fighi assai pidocchi, cantò il Fagioli. Il fico è boccon ghiotto anche per gli uccelli.
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L'abuso, anticamente, non solo si credeva regalasse coliche, ma procurasse sudore e generasse pidocchi, rogna ed altre sordidezze. Generan anche i
Tra gli eduli ricordo solo i più comuni ed i più sani: L'Agarico cesareo (fonsg coch) che era in gran pregio anche presso i Romani, e lo chiamavano il cibo degli Dei, e i poeti ne cantarono i pregi sotto il nome di boletus. — Il Boletus edulis (fonsg ferree) è il migliore fra tutti i boleti, e il più comune da noi, ed è forse il suillo essicato, che i Romani traevano dalla Bitinia.— Le clavarie (didella), ital.: ditola, sono per la più parte mangereccie, anno carne assai tenera, aromatica e di facile digestione. Si presentano d'ordinario colla ramificazione del corallo, o a forma di piccole clave, d'onde il nome. Variano di colore secondo la specie. — La morchella esculenta (spungignola), ital.: spugnola, nera, gialla e bionda, tutte mangereccie.
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Tra gli eduli ricordo solo i più comuni ed i più sani: L'Agarico cesareo (fonsg coch) che era in gran pregio anche presso i Romani, e lo chiamavano
Piccolo arbusto perenne a foglia caduca, che cresce spontaneo in molti paesi d'Europa, e singolarmente nei climi temperati e freddi. Viene in piena terra, vuol terreno fresco, sabbioso, sostanzioso, esposizione di tramontana, ombreggiata alquanto. Dopo 8-10 anni comincia a deperire. Da Maggio a Giugno à fiori rossi o bianchi, pelosi, in piccoli corimbi, ai quali succedono frutti rossi, vellosi. Si moltiplica dividendo le radici in autunno. È detto Rubus idoeus dal monte Ida dove i Greci, teste Dioscoride, asseriscono d'averlo scoperto i primi. Nel linguaggio dei fiori: Dolcezza di linguaggio. Deve essere colto appena sia maturo, perchè facilmente si guasta e cade. Il lampone è uno dei frutti più salubri e profumati; è succoso, rinfrescante, di sapore gratissimo. È suscettibile di fermentazione vinosa, acida alcoolica. Contiene un olio essenziale solubile nell'alcool e nel vino, ma non nell'acqua. Se ne fa sciroppo col succo solo; unendovi l'aceto se ne à l'acetosa che è gradevole e rinfrescante. Le foglie sono astringenti, i fiori diaforetici. I frutti si mangiano crudi col vino e la panna, collo zuccaro se ne compongono conserve, sorbetti, gelatine, ecc. Si candiscono, danno profumo ad acquavite e liquori — se ne fa aceto e si adoperano per aggiunger forza e fragranza a quello di vino. Il nome di Fambros viene da Ambrosia per il grato sapore che lascia in bocca. Dai Romani era chiamata Mora Vaticana e la mangiavano condita di molto zuccaro.
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nell'acqua. Se ne fa sciroppo col succo solo; unendovi l'aceto se ne à l'acetosa che è gradevole e rinfrescante. Le foglie sono astringenti, i fiori
Chiuda il suo desinare .... Dice Orazio Sat. IV. Ateneo riferisce al libro II, c. X, che essendo rimasti sterili i rovi per lo spazio di 20 anni, la podagra fe' strage non solo fra gli uomini, ma fra le donne e i fanciulli e inoltre fra gli armenti. Le môre si conservano lungo tempo nello stato di maturità, onde i Romani d'una donna che tardi si maritava o che campasse gli anni di Matusalemme, dicevano: Maturior mora, ch'era più matura della môra.
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podagra fe' strage non solo fra gli uomini, ma fra le donne e i fanciulli e inoltre fra gli armenti. Le môre si conservano lungo tempo nello stato di
Il lauro, o alloro, è un albero sempre verde, il solo della numerosa famiglia dei Lauri che sia indigeno in Europa. Nasce spontaneo sui nostri colli e allieta le amene sponde dei nostri laghi. Si moltiplica per palloni e semi, vuol terreno fresco e grasso. Del lauro se ne contano ben 32 varietà. L'origine del suo nome è celtica, e significa verde. Nel linguaggio delle piante è: Gloria, Trionfo. Le foglie anno uso speciale nell'igiene alimentare, servendo ad aromatizzare vivande, frutta, carni, specialmente di pesce, da conservare essicati. Si innestano agli uccelletti invece della salvia, si unisce all'anguilla, alle salsiccie. Servono a dar sapore ai marinati di pesce e alla gelatina d'animale. Sopra le foglie d'alloro si pone la cotognata ed un ramoscello d'alloro acceso e messo entro lo strutto bollente gli porge aroma e lo toglie dal pericolo d'irrancidire. Conserva pure i fichi secchi ai quali s'inframmette. Il decotto d'alloro sparso in terra, scaccia i tafani e le foglie messe tra i libri, di quei letterati che non li aprono, li difendono dal tarlo — tale il precetto di un conservatore di Biblioteca. Le foglie, e più sfregandole, anno odore forte, piacevole,, canforato, sapore aromatico-amaro. Ardono schioppettando con fiamma viva, con fumo denso, diffondendo grata fragranza. Contengono olio etereo ed una materia estrattiva amara] sono perciò toniche, eccitanti, sudorifere, emmeaagoghe, e si vantano contro l'atonia dello stomaco, le flatulenze intestinali, i catarri cronici, le paralisi e l'idrope. Le bacche sono più attive delle foglie. Se ne fecero tisane, decotti, polveri e pillole allo stesso scopo. Ma il prodotto più importante è l'olio laurino che se ne estrae ad uso principalmente veterinario. All'uomo si applica esternamente per paralisi, reumatismi. Ammaccando le bacche grossolanamente se ne fa un decotto saturo per pediluvi contro i sudori estivi e giova assai per quelli che hanno i pee dolz, cioè per quelli ai quali torna molesto il camminare. L'alloro, onor d'imperatori e di poeti, godeva anticamente un concetto quasi religioso e superstizioso. Era consacrato ad Apollo, dio sempre giovane, biondo ed imberbe. Dai Greci veniva chiamato Dafne, perchè una certa Dafoe, una crestaina di quei tempi, essendo perseguitata da Apollo, si rivolse agli Dei chiedendo protezione, ed essi, non potendo far altro, la cambiarono in lauro, che poi essendosi accorto Apollo, se la mise in forma di corona sulla sua bionda parrucca e ne recinse pure le sue famose nove pettegole di Muse. Porfirio, filosofo, asserisce che gli antichi traevano i presagi del lauro se abbruciando crepitava assai era buon augurio e portava felicità — se no — brutto segno ! Per cui Tibullo (lib. II, Eleg. V) dice:
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Il lauro, o alloro, è un albero sempre verde, il solo della numerosa famiglia dei Lauri che sia indigeno in Europa. Nasce spontaneo sui nostri colli
11 lino è una pianticella annua indigena venuta a noi dall'Egitto. Ve ne sono 19 varietà. Un etimologo tedesco (oh, gli etimologi!), vuole che il suo nome venga dal celtico lein, un uccello che si pasce dei semi del lino, che dev'essere il passero. Col quale sistema di etimologia, si può spiegare benissimo anche che la parola osso viene da cane, essendo i cani che mangiano le ossa. Pare invece che venga da lis linon e linteum, dall'uso più comune che si fa della pianta, o dal latino Unire, ungere, fregare, il che indurrebbe a credere l'uso antichissimo dell'olio di lino. Il tessere il lino è antichissimo. Omero riferisce che nella guerra trojana molti avevano corazze di lino. Lo filavano perfino le regine, esempio Berta. II seme di lino, riposato fino a 7 ed 8 anni, acquista in qualità arrivando a dare un prodotto comparabile a quello di Riga. I Russi ànno un processo per essiccare nel forno il grano destinato alla semente. Plinio parla di un lino incombustibile, ma evidentemente intende d'un tessuto d'amianto conosciuto già dagli Indi e dagli Egizi. Il lino si coltiva in grande nel Belgio, nell'Olanda, nella Germania, in Irlanda sulle rive del Baltico e nei dipartimenti francesi del Nord. Celebre quello di Riga in Russia, pregiato quello dell'Egitto e del Canada. Da noi si coltiva nelle provincie di Pavia, Lodi, Crema, Piacenza e nella Lomellina. Il lino ci accarezza il corpo di giorno e di notte, ci serve democraticamente in cucina e fa brillare nella sua candidezza i calici aristocratici dello Champagne e del Johannisberg. Ma qui ne parlo solo per riguardo al suo olio. Il seme del lino dà un olio, da noi chiamato di linosa, che non piace a tutti, che non à i pregi di quello di oliva (che à dato il nome all'olio, perchè olio viene da oliva, olea, ma che però, quando è fresco, e molto fresco, e fatto a freddo, è saporito e assai gustoso nella maggior parte delle insalate. Specialmente nell'alta Lombardia è molto usato ed è assai sano. Dal seme del lino se ne cava farina, ma per quanto si sia tentato anche dagli antichi di farne pane o di servirsene per nutrimento, fu sempre rifiutata, ingenerandone l'uso malattie ed anche la morte. Di essa se ne serve felicemente la medicina per cataplasmi, emollienti, ecc.
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calici aristocratici dello Champagne e del Johannisberg. Ma qui ne parlo solo per riguardo al suo olio. Il seme del lino dà un olio, da noi chiamato di
La Myristica moscata è pianta ramosa, sempre verde, che si eleva fino a 15 metri, rassomigliante l'alloro, originaria delle Molucche, ora coltivata nell'Isola di Banda, a Cajenna, alle Antille, Brasile e Perù. Nel 1864 Banda ne possedeva 266.000 piante. Si propaga per semi ed alcune specie di colombe, segnatamente la carpaphora concinna, ànno una parte attiva nella sua disseminazione trangugiando il frutto, ed evacuando il seme che conserva e forse è favorito nella sua facoltà germinativa, dal passaggio per i loro intestini. À fiori piccoli, biancastri, che lasciano il posto a drupe, o frutti carnosi, grosse quanto un'albicocca, che si aprono in due valve, e lasciano vedere un seme ovoidale nerastro, duro, che è la sua vera noce. Essa è circondata da una pellicola o arilla di color rosso arancio, e frangiata quando è recente, ma che diventa gialla colla essicazione, ed è ciò che noi denominiamo macis. Nel linguaggio delle piante: Potenza. La raccolta di queste noci si fa in aprile, luglio e novembre, le qualità migliori sono colte a mano quando sono mature. Sul mercato inglese si valutano le noci moscate dalla loro grossezza, quelle che ànno circa due centimetri e mezzo di lunghezza, sopra due di larghezza, e dalle quali bastano soltanto quattro a formare un'oncia, sono tenute in alto pregio. Il macis lo si separa dal seme, lo si fa essiccare al sole, dopo averlo immerso nell'acqua salata, ciò che gli conserva morbidezza ed impedisce la volatilizzazione del principio aromatico. Le noci, spogliate del loro arillode, vengono rapidamente essiccate in camere affumicate, sino a che lasciano il loro sottile inviluppo. Così essiccate vengono in commercio, subendo però prima ancora un bagno di latte di calce, ciò che in China si omette. Le migliori noci moscate, sono quelle rotonde, pesanti, fresche, odorose, tramandano un sugo oleoso, aromatico, grasso. La noce moscata ed anche il macis contengono olio volatile, nel quale risiede tutta la loro energia, un'olio fisso, una sostanza buttirrosa volatile, ed un principio estrattivo solubile nell'alcool molto odoroso ed attivo. Questa sostanza buttirrosa che forma circa il quarto del suo peso, è conosciuta sotto il nome di burro noce moscata. Viene falsificata con miscela di cera gialla, sego e polvere di curcuma. La noce moscata, viene essa pure falsificata con quella tarlata dagli insetti, quella vecchia, ammuffita, esaurita colla distillazione e con quella fabbricata di tutto punto con pasta di farina, polvere e burro noce moscata, ma nell'acqua si stempera completamente. Jobard di Bruxelles riferisce, che, or sono una ventina d' anni circa, è arrivato da Canton un bastimento inglese, carico di... noci moscate di legno bianco, perfettamente modellate ed imitate. La noce moscata è fra gli aromi uno dei più potenti ad eccitare l'inerzia del ventricolo, a dar vita al cuore. Regala di graditissimo sapore molti manicaretti, sì di carne, che di verdure; e d'ova. Entra grattugiata non solo in cucina e nella pasticceria, ma nella distilleria, fa parte di vari elisiri, tinture, rosolj, ecc. Il macis è uno dei componenti l'aceto dei tre ladri. I medici assegnano alla noce moscata virtù toniche ed eccitanti. Se ne adopera l'olio in frizioni delle parti paralizzate. Averroè, vuole che, la noce moscata non fosse conosciuta dai Greci e dai Romani. Avicenna, antico medico arabo (n. 980+1037), la conosceva e dice che gli Arabi la chiamavano Jausiband, cioè noce bandese, e doveva essere nota anche agli antichi Egizi, perchè ne abbiamo trovati alcuni frammenti nelle loro mammie e si crede fosse ingrediente dei loro balsami a conservare i cadaveri. Serapione, nel libro II dei Semplici, la descrive appoggiato all'autorità dei Greci. Galeno la chiama crisobalano. Anche Emolao Barbaro, in Dioscoridem, è dell'opinioneche i Greci la conoscessero. Gli Olandesi, nel secolo scorso, si misero in testa di farne un loro monopolio e a tale intento ne distrussero quasi la specie nello Isole Molucche. Ma nel 1770 Poivre, governatore di Bourbon, riuscì a rapir loro, con quelli dei chiodi di garofano, alcuni alberi di noce moscata e li piantò a Maurizio e a Bourbon.
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vita al cuore. Regala di graditissimo sapore molti manicaretti, sì di carne, che di verdure; e d'ova. Entra grattugiata non solo in cucina e nella
L'olivo è pianta indigena sempre verde. Ama esposizione asciutta, soleggiata, difesa dai venti, terreno buono, sabbioso, concimato. Teme il gelo (resiste fino a 7 gradi) e la grande siccità. Fiorisce lentamente, si moltiplica per semi, talee, polloni ed innesto. Comincia a produrre verso il quindicesimo anno di vita, e aumenta fino ai cinquanta — à vita secolare. Molte le varietà a seconda dei paesi. In Italia è coltivato lungo le costiere marittime. Abbonda nel Lucchese e nella Romagna, lo si trova sulle rive bene esposte del Lago Maggiore, di Garda, di Como. Era coltivato nel resto della Lombardia, ma il forte disboscamento delle Alpi lo distrusse. Nel linguaggio delle piante: Pace, Riposo, Sicurezza. I frutti dell'olivo non sarebbero perfettamente maturi che nel maggio seguente alla fioritura, quando ànno acquistato un color rosso nerastro, ma si colgono in novembre e dicembre, perchè non maturando tutti alla medesima epoca, il raccolto andrebbe perduto. Raccolte le olive si mettono in casse o tini perchè non vi penetri aria o succeda fermentazione e si coprono a garantirle dal freddo. Cosi si può ritardare l'estrazione dell'olio fino a primavera e ottenerne una maggior quantità. Appartiene alla famiglia dell'olivo, l'olea fragrans, che dà i fiorellini cosi soavemente profumati. L'olio che si cava dalle bache è vergine quando è fatto col frutto maturo a pressione e si distingue dall'altro che si ottiene colla bollitura. Il primo è assai migliore. L'olio, d'oliva fino dev'essere insaporo. Gode del primato in Italia quello di Lucca. È facilmente adulterato con quello di semi di cotone, di sesamo (vedi in Sesamo), di arachide e d'altri semi. È alimentare per eccellenza, e venne sempre usato come condimento alle carni, agli ortaggi e persino alle frutta. Nè solo condire, ma serve pure a conservare in vari modi le vivande e a bruciare. L'olio d'olivo è il più antico dei rimedi che si conoscono; lo si adopera internamente ed esternamente, freddo e caldo: è la base della maggior parte degli unguenti e degli oli medicinali. L'olio cotto non gela. L'arte di cavar olio dall'oliva è antichissima. La si trova citata nell'Esodo (cap. 27, 20) e nel Levitico (cap. 24, 2). Dal frutto verde immaturo i Romani estraevano un olio viscoso, brumasto, chiamato omphacium. Gli atleti se ne ungevano il corpo, poi, dopo la lotta, misto al sudore ed al sangue, lo si raschiava dal corpo con una specie di coltello detto strigili, e lo si conservava come preziosissimo contro una infinità di malattie, principalmente la scabbia e l'alopacia (caduta dei capelli). Gli antichi ne facevano molto uso igienico per frizioni. L'imperatore Augusto domandò a Pollione come avesse saputo toccare i cento anni, e questi rispose: «curandomi col vino di dentro e con l'olio di fuori.»
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arachide e d'altri semi. È alimentare per eccellenza, e venne sempre usato come condimento alle carni, agli ortaggi e persino alle frutta. Nè solo condire
. Tutti gli scrittori greci e latini ne parlano, magnificandone i benefici. Columella lo chiama addirittura: Olea omnium arborum prima. Le foglie e le scorze ànno sapore amaro e danno un succedaneo al chinino nelle febbri. Nelle regioni cocenti dell'Africa e nelle meridionali d'Italia, principalmente nelle Puglie e nelle Calabrie, dal tronco dei vecchi alberi cola un succo addensato che si chiama Gomma d'olivo o Gomma di Lecce; è una resina balsamica che, soffregata, dà odore di vaniglia e, bruciata, di acido benzoico. Gli antichi la facevano venire dall'Etiopia e l'avevano molto in pregio come profumo e rimedio balsamico, tonico, oftalmico. Il legno, durissimo, serve per i tornitori. L'olivo fu portato nell'Arca dalla colomba, simbolo di pace tra il cielo e la terra. Il Redentore si ritirava sul monte degli Olivi a pregare dal suo divin Padre il ritorno di questa pace, e la Chiesa nel suo rito, benedice l'olivo e lo distribuisce ancor oggi segnale di pace a' suoi fedeli. Sulla fede di Plinio moltissimi pretendono che l'olivo sia originario dell'Asia, e non sia stato portato in Italia che sotto Tarquinio Prisco, verso il 180 dalla fondazione di Roma. Ma come nota il Bortoloni, forse allora solo, s'incominciò a coltivarlo, ma l'olivo selvatico è assolutamente indigeno di tutti i climi caldi e temperati d' Europa. Presso noi, quattordici secoli fa, il poeta Claudiano già ne scriveva:
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, forse allora solo, s'incominciò a coltivarlo, ma l'olivo selvatico è assolutamente indigeno di tutti i climi caldi e temperati d' Europa. Presso noi
La Pastinacca, dal latino pastus, nutrimento, per le sue qualità alimentari, è una radice che somiglia alla carota, carnosa, bianchiccia, aromatica, biennale. I semi producono solo 2 anni. Si semina in marzo, aprile, maggio, in terreno sostanzioso e lavorato profondamente. Ama essere innaffiata d' estate. Si conserva benissimo anche in terra, non teme il gelo. Fiorisce nel luglio ed agosto del secondo anno che è stata seminata. Cresce naturalmente nei prati, nei pascoli e tappeti erbosi. Si coltiva negli orti ad alimento. Nel linguaggio delle piante: Sei pazzo. In Italia è poco coltivata. La radice grossa della pastinacca coltivata è saporitissima, si usa cotta in minestra, accomodata col burro ed in insalata. Oltre le radici che sono molto nutritive, si mangiano pure le foglie che sono assai bone ed aromatiche. Mèrat dice:
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, biennale. I semi producono solo 2 anni. Si semina in marzo, aprile, maggio, in terreno sostanzioso e lavorato profondamente. Ama essere innaffiata d
La patata, o pomo di terra, o solano (dal latino solarium, sollievo), nel linguaggio dei fiori: Beneficenza, è una radice tuberosa originaria dall'America e precisamente dal Chili e dal Perù, dove si trova ancora allo stato selvaggio. Fu importata colla Dalia, e, curioso ! questa per il tubero, la patata per il fiore. Propriamente il nome di patata appartiene ad altra pianta, la vera patata ipomea o convolvulus patata, che viene solo nei climi caldi. Vuole terreno pingue, vegeta in tutti i climi, nelle più basse pianure come a 4000 metri sopra il mare (nell'America e nella Svizzera), sotto l'Equatore (Quinto) come nella Siberia. Da noi si raccolgono i tuberi dall'agosto al settembre, à fiori bianchi e violetti. Si propaga per seme o meglio si piantano i così detti occhi, che sono le parti della patata accennanti al germoglio, cessato il gelo da metà marzo in avanti. Si conservano per tutto inverno, ma al caldo fioriscono, all'umido marciscono, al freddo gelano, e temono la luce. Fu portata in Europa dagli Spagnuoli. Pedro Cicca fu il primo a parlarne nel 1553, e nel memedesimo anno Fiorentino Fiaschi ne scriveva da Venezuela a suo fratello. Il Cardano ne fa menzione nel 1557. Nel 1565 fu portata in Irlanda da Hawkins e poi introdotta in Francia. Prima che Releigh e Drake dalla Virginia la trasportassero in Inghilterra, era coltivata in Toscana, ne fa fede il frate Magazzini, e il Redi che nel 1067 ne mangiava in Firenze alla corte di Cosimo II. Le patate in Italia dapprincipio si chiamavano tartuffoli. Nella Germania s'introdusse nel 1710 e dovunque nel 1772 era coltivato negli orti botanici e nei giardini come pianta di lusso. Ma la sua diffusione, come tubero alimentare, fu lenta e contrastata. I codini d'allora, la avversarono come pianta sospetta, venefica. Ai codini si unirono i medici più celebri, che la incolparono della degradazione fisica e morale delle popolazioni, e fomite di tutte le malattie. Ai codini ed ai medici fecero coro anche i frati ed i parroci che dai pulpiti la chiamarono radice del diavolo. Figuratevi il popolo! Anche oggi la coltura della patata è interdetta in Corea. Non fu che sulla fine del secolo passato che potè trionfare. Gli sforzi fatti da Parmantier per convincere gli ostinati sono incredibili. Il 25 agosto 1785, proprio nel giorno della sua festa, Luigi XVI lo ammise alla mensa reale e Maria Antonietta, al ballo della medesima sera, ne ornò i suoi biondi capelli.
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patata per il fiore. Propriamente il nome di patata appartiene ad altra pianta, la vera patata ipomea o convolvulus patata, che viene solo nei climi
Il pepe lungo (piper lungum, macro piper), nasce nel Bengala e nelle isole Molucche, à gettini lunghi un pollice circa, grossi come una piccola penna da scrivere, di color cenere. Il loro sapore è più acre e meno grato del pepe nero e di un odore perfettamente, simile. Entra nella composizione di alcuni elettuari, ma il consumo maggiore si fa dagli acetai, i quali lo infondono nell'aceto debole per renderlo acre. Gli Indiani poveri lo macerano nell'acqua, e così reputano renderla stomatica. Ne mettono pure in conserva i racemi immaturi nella salamoia, e serve loro a tavola e nelle insalate. Venne pure chiamato pepe lungo il nostro peperone. Il pepe della Giammaica, o pimento degli Inglesi, o pepe garofanato, è della grossezza di un pisello, di color grigio-rossastro, rugoso. À odore aromatico analogo a quello della canella e del garofano, sapore piccante quanto il pepe. Questa droga è di gran uso nei paesi caldi, in Germania ed in Inghilterra per condire le vivande, ed è uno dei principali ingredienti per la composizione delle spezie. Quello che si usa sotto il nome di pepe di Cajenna (Vedi Peperone), non è altro che il seme e la capsula seminale di una pianta selvaggia del Sud dell'America, che è coltivata nelle Indie e che si chiama Capsicum baccatum, annuum et fructescens. Poche sostanze, fino dai tempi remotissimi, furono oggetto di tante falsificazioni quanto il pepe. Una buona regola, è quella di comperar sempre pepe in grana e di polverizzarvelo da voi a norma del bisogno, valendosi di quei piccoli macinatoi di pepe, oggi molto diffusi. Per falsificare il pepe nero servono farine d'ogni genere, segatura di legno, panelli oleosi, terre, gesso, ecc. Il pepe bianco si usa renderlo più pesante stacciandolo insieme a gomma, amido, calce, gesso, biacca, ecc. Nè solo si falsifica in polvere, ma pure in grani, e ciò abilmente con semi, argilla, gesso e polvere di pimento, in Inghilterra, in Germania e in Francia. A Parigi, lo afferma Chevallier, v'è una fabbrica che produce annualmente 1500 chilogrammi di una miscela che si vende unicamente per adulterare il pepe. Riesce facile riconoscere il falso pepe in grana, mettendolo nell'acqua, che allora i falsi grani vanno prontamente al fondo e si sciolgono in poltiglia. Il pepe è un aroma potente e popolare che condisce la minestra del povero e rende pizzicanti gli intingoli del ricco. Eccita la salivazione, favorisce la digestione, ma irrita, preso smodatamente, gli intestini delicati.
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, panelli oleosi, terre, gesso, ecc. Il pepe bianco si usa renderlo più pesante stacciandolo insieme a gomma, amido, calce, gesso, biacca, ecc. Nè solo
. I piselli colti appena, devono essere sgusciati al momento e gettati in aqua bollente, salati leggermente e bolliti solo 15 o 20 minuti. Quanto più si lasciano bollire, tanto più perdono sapore e diventano duri, e questo si dica anche dei piselli secchi. Devono essere cotti in aqua abbondante, e, levati, farli subito scolare. Se secchi, sarà meglio gettarli in aqua fresca un'ora prima di cocerli e mettere un po' di zuccaro in quella nella quale bollono. La buccia fresca dei piselli, massime dei primaticci, facendola bollire assai e passata allo staccio, dà una sostanza che messa nel brodo fa la zuppa più saporita e gustosa. I piselli freschi e teneri sono più digeribili che i secchi, e si mangiano anche crudi. Si cucinano in diversi modi, colle minestre, colle carni, nei manicaretti. Accompagnano benissimo il capretto, il vitello, i piccioni e le anitre. In ogni caso, ripeto, non devono mai essere stracotti. I piselli si fanno seccare col medesimo metodo dei fagioli e degli altri legumi. Un modo facile e poco costoso è di distenderli su di un piatto o foglio di carta e farli essiccare in un forno abbastanza tepido da potervi tenere la mano. Si raggrinzeranno, ma saranno saporitissimi ed eccellenti per zuppa e ragoùts. Si conservano verdi nell'aqua e aceto e prima di mangiarli si lavano in aqua fresca. Devonsi però raccogliere perfettamente maturi, e si leva ai grani stessi la prima scorza. In Francia, colla buccia mista ad altre erbe aromatiche ed amare, si faceva una specie di birra, usata principalmente dai contadini. Nel Chili, è molto popolare la chicha de oloja, bevanda fermentata che si fabbrica coi piselli e col maiz. Nell'anno 1536, il cardinale Lorenzo Campeggio à dato un pranzo in Trastevere alla maestà cesarea di Carlo V, imperatore. Era giorno quadragesimale «et prima fu posta la tavola con quattro tovaglie profumate... et dopo vari serviti;» furono portati «piselli alessati con la scorza et serviti con aceto et pepe sopra, libre 8 in 4 piatti.» Poi dopo molti altri servizii «levata la tovaglia et data l'aqua alle mani si mutò salviete con forcine d' oro et d' argento con stecchi profumati in 12 tazze d' oro et mazzetti di fiori con garofoli profumati» e tra le altre cose furono ancora serviti «piselletti teneri con la scorza conditi, libre 6 in 3 piatti.» Tanto ci tramanda Bartolomeo Scappi, maestro nell'arte del cucinare, del quale papa Pio V dice:
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. I piselli colti appena, devono essere sgusciati al momento e gettati in aqua bollente, salati leggermente e bolliti solo 15 o 20 minuti. Quanto più
. Vero è che col nome di pomo, non solo la Bibbia, ma tutti gli scrittori, designarono le frutta in genere, ma, se ciò avvenne, era perchè il pomo era il re, il capostipite di tutti i frutti e si prese il nome suo ad indicare tutto ciò che il regno vegetale produceva di bello e di bono a mangiarsi. Così tutti i barbari che calavano da noi, chiamavano l'Italia la terra delle dolci poma, cosi il frutteto fu chiamato pomarium. A Roma, il Dio del pomo, era detto Falacer, e vi aveva un apposito sacerdote col relativo santuario. I Romani li facevano cocere nel vapore dell'aqua o sotto la cenere. L'arte di conservare le poma, era all'apogeo presso i Romani. Pollione dice di Gallieno:
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. Vero è che col nome di pomo, non solo la Bibbia, ma tutti gli scrittori, designarono le frutta in genere, ma, se ciò avvenne, era perchè il pomo
. I Greci poi raccontano del pomo cose orribili. Giove unì in nozze un bel giorno la dea dei mari, Teti, con Peleo, dal quale matrimonio nacque poi il bollente Achille. Quelle nozze furono celebrate con gran pompa e alla presenza di tutto l'olimpo au complet. Tutte le divinità infernali, aquatiche e terrestri ebbero, non solo il fairepart, ma ufficiale invito d'intervenire. Una dea sola fu esclusa: la dea Discordia. E questa, per vendicarsi, al momento dei brindisi, comparve nella sala del banchetto e buttò sulla tavola un bellissimo pomo, dicendo: «Alla più bella di voi,» e sparì. Giunone, Pallade e Venere, ch'erano difatti le più belle, si guardarono per traverso, e ognuna di loro pretendeva quel pomo. Giove, che in quel giorno non voleva seccature, mandò a chiamare Paride, un bel giovinotto, e lo fece arbitro della bellezza di quelle concorrenti. Tutte e tre fecero gli occhietti a quel giovinotto, ma egli consegnò il pomo a Venere, lasciando le altre due con tanto di naso. Venere ebbe il pomo, ma Giunone e Pallade lo conciarono poi per le feste, e tanto fecero che andò a finir male. Rubò Elena, fu assediato e vinto a Troja, e ferito da Pirro, andò a morire sul monte Ida. Tutto, per quel pomo che dappoi fu chiamato il pomo della Discordia. Nè qui finisce la storia di quel pomo. Venere, in quel giorno, almeno per galanteria, doveva cederlo a Teti, che sedeva in capo tavola, sposa festeggiata, ma fe' la sorda e se lo mise in saccoccia. Naturalmente Teti l'ebbe a male alla sua volta, e se la legò anche essa al dito. Avvenne che Venere discese un giorno sulle rive delle Gallie a raccogliere perle e un tritone le rubò il pomo che aveva deposto su di un sasso, e lo portò a Teti. Questa lo prese, lo mangiò e buttò i semi in quella campagna a perpetuare il ricordo della sua vendetta e del suo trionfo. Ecco perchè, dicono i Galli-celti, sono tante mele nel nostro paese, e perchè le nostre fanciulle sono così belle! Questa seconda parte l'aggiunge Bernardin de S. Pierre, magnificando le bellissime mele della Normandia. Al pomo i nostri fratelli svizzeri attaccano la storiella di Guglielmo Tell, e al pomo che cadde sul naso a Newton, mentre riposava in giardino, dobbiamo la scoperta dell'attrazione. La quale attrazione, del pomo, era già scoperta migliaia d'anni fa da Eva. Ed è per questa attrazione che il re Wadislao di Polonia fuggiva e cadeva in deliquio alla vista di un pomo. Il nostro popolo, prende il pomo come il tipo della rotondità (rotond come un pomm) della somiglianza (vess un pomm tajaa in duu), del vino fatto colle mani (vin de pomm), della paura (pomm-pomm), degli avvenimenti necessari (el pomm quand l'è madur, bisogna ch' el croda); infine dell'arma più pacifica per sbarazzarsi da un seccatore (fa córr a pomm). Proverbi sul pomo:
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e terrestri ebbero, non solo il fairepart, ma ufficiale invito d'intervenire. Una dea sola fu esclusa: la dea Discordia. E questa, per vendicarsi, al
Charlotte di poma. — Pelate le poma, levatene il torso (caruspi) e lasciatele cocere con vino bianco, un pezzo di burro, zuccaro (sulla dose di un terzo del peso dei frutti) e pezzi di cedrato candito. Quando le poma cominciano ad asciugare, toglietele dal foco. Ungete intanto uno stampo, spolverizzandolo di zuccaro, tappezzatene il fondo e le pareti, con pezzi di mollica di pane francese, della grossezza di uno scudo, che avrete bagnato nel burro fuso, versatevi in mezzo le poma, copritele con altre simili fette di pane e fate cocere al forno o col testo. Se le poma fossero troppo cotte e tendessero a squagliarsi, prima di asciugare levatele dal loro giulebbe e collocatele nello stampo già disposto, poi concentrato, a foco vivo, il giulebbe da solo, versatelo sui frutti. Così ridotti a giulebbe, potrete servirli anche colla crostata. Sbattete a quest'uopo tre chiara d'ova in fiocca densa con tre cucchiai di zuccaro bianchissimo in polvere, stendete questa fiocca sulle poma in giulebbe e fatele prendere un color nocciola, coprendola per qualche istante con testo caldo.
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giulebbe da solo, versatelo sui frutti. Così ridotti a giulebbe, potrete servirli anche colla crostata. Sbattete a quest'uopo tre chiara d'ova in fiocca
Solone aveva ordinato che alla mensa delle nozze fossero apprestati dei pomi cotogni, agli sposi. Questo frutto non dura molto. Si candisce, se ne fa sciroppo ed una pasta nota sotto il nome di cotognata, chiamata dal Palladio Cydonitem, e di uso volgare nelle affezioni catarrali di petto. Entra nella mostarda. Un buon credenziere li serve in mille maniere, li coce nell'aqua, nel vino, li abbrustolisce sotto la cenere, ne fa torte, pasticci ed offelle. À virtù astringente. Da' suoi semi ovali, accuminati, se ne cava una mucilagine che, Pareira, chiamò cidonina, che la medicina adopera internamente a mitigare i dolori delle fauci e dell'esofago, prodotti da qualche acre, corrodente sostanza; esternamente, a modo di colirio nelle infiammazioni delle palpebre congiuntive; questa mucilagine à virtù analoghe alla glicerina. I parucchieri la vendono molto cara, sotto il nome di bandoline per lisciare e fissare i capelli. Teofrasto e Plinio ne parlano coll'aquolina in bocca; anzi, Plinio insegna a cocerli nel miele, Galeno e Paolo Egineta lo magnificano come migliore delle poma, e non solo gli decretano summam auctoritatem in mensis, et culinis, ma anche come medicamentum.
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lo magnificano come migliore delle poma, e non solo gli decretano summam auctoritatem in mensis, et culinis, ma anche come medicamentum.
Il popone, volgarmente detto melon, è una pianta erbacea, annua, indigena, originaria dall'Asia. Depone, dal greco pepo, che significa maturo. Vuol terreno sciolto, lavorato profondamente, grasso, fresco. Per la coltura forzata, si semina su letto caldo in gennaio, febbraio, marzo: solo in aprile e maggio all'aperto si trapianta. Ama la mezz'ombra e la pulitezza, il troppo umido gli è dannoso. Si svetta, a farlo più prolifico e ad impedirne una soverchia vegetazione. I semi del popone germinano fino ai 5 anni. È maturo quando il suo peduncolo è corto, grosso, à sapore amarognolo, e quando il frutto è pesante e resistente alla pressione. L'odore non deve essere molto pronunciato. La troppa sonorità del frutto, battuto colle dita, è indizio d'immaturità. Il distico seguente ve lo insegna:
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terreno sciolto, lavorato profondamente, grasso, fresco. Per la coltura forzata, si semina su letto caldo in gennaio, febbraio, marzo: solo in aprile e
quella parte. Vuolsi che cotto e lasciato riposare 24 ore, acquisti di bontà. Se affonda nell'aqua è buono. Del seme generalmente si sceglie quello dell'anno antecedente, maturato sul proprio stelo, si toglie dall'interno del frutto e si fa asciugare senza lavarlo. Moltissime le sue varietà, tanto precoci, che tardive. Àvvene a polpa rossa, bianca, verde, gialla e sono caratterizzate dalle loro coste. Boni, anche i rampichini. Alcune varietà raggiungono enormi proporzioni e sono oltremodo profumate e gustose. La sua coltura riesce perfettamente in Italia, celebri quelli di Caravaggio, precoci, carnosi, tondi, a polpa gialla, ma non paragonabili a quelli dell'Italia Meridionale e singolarmente a quelli d'inverno, che ci vengono dalla Sicilia e dalla Basilicata. Fra le migliori specie si distinguono: il moscato di Spagna ed i cantaloup di Francia. Nel linguaggio dei fiori: Silenzio benevolo. La parola melone, da mela, quasi una grossa mela, ci venne dai Latini. Il popone è frutto saporito, aromatico, ma non è digeribile da tutti. I ghiottoni lo mangiano con zuccaro e pepe, il che ne facilita la digestione; è utile l'accompagnarlo con vino generoso o rhum. Si serve a tavola, per antipasto, coi salumi, per frutta da dessert; se ne fanno anche sorbetti. In cucina serve come la zucca, si taglia a bocconi in minestra e brodo grasso, si lega con ova e formaggio, e se di magro, si condisce con latte delle stesse sue màndorle. Le scorze si condiscono al miele, si candiscono e si confettano nell'aceto. Spogliate di quella prima pelle rustica tubercolosa, si fanno bollire col vino, e fatte asciugare al sole o al forno, si mettono in conserva, in mostarda. A fette sottili, essiccate, si conserva per l'inverno, che rinvenute nell'aqua tepida si conciano in minestra e se ne coprono i lessi. Dicesi che un pezzo di melone messo nella pentola acceleri la cottura delle carni. I semi si mangiano pure e sono dolcissimi, saporiti in confettura. Pestati, servono a fare lattate e da famosa semata, la prediletta dei nostri nonni. In medicina, tali semi danno emulsioni emollienti e rinfrescanti. I Greci, lo avevano per frutto nocevole, e producente febbri miasmatiche ed affezioni cholerose. In Francia, per molto tempo fu il cibo dei soli muli. In Spagna ed Italia fu sempre onorato: nel 1600 erano celebri quelli di Ostia. Il papa Paolo II morì per indigestione di melone. Clemente VII li prediligeva sì, che malato, era il solo cibo che gradisse. Il melone a Roma era chiamato melangolo. Le qualità del bon melone sono descritte nella seguente epistola di Antonio Bauderon de Senecè, poeta famoso e dottore illustre della Sorbona:
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li prediligeva sì, che malato, era il solo cibo che gradisse. Il melone a Roma era chiamato melangolo. Le qualità del bon melone sono descritte nella
. Plinio dice che non solo il prezzemolo è un cordiale per gli uomini, ma lo è anche per i pesci: Pisces quoque, si aegrotant in piscinis, apio viridi recreantur, il che vuol dire: se ti si ammalassero i pesci nella piscina, mettivi delle erborine verdi che guariranno. Le lepri ed i conigli ne sono avidissimi, anzi il darlo loro fa bene e li fa guarire. Le galline e i pappagalli ne soffrono ed anche moiono. Ma se il prezzemolo è un aroma sano, non se ne deve abusare, perchè è eccitante, la sua radice è più stimolante delle foglie. Del resto i medici gli assegnano virtù diuretica, dà rimedio nelle malattie d'occhi, è febbrifugo e risolvente, vulnerario e narcotico nelle contusioni, nelle echimosi, negli ingorghi lattei. Le famose pillole galattifughe, arcana preparazione della farmacia di Brera, constano principalmente di estratto di prezzemolo. Il seme del prezzemolo triturato in polvere serve di cipria per distruggere i pidocchi. Se si prende una certa quantità di prezzemolo e lo si pone nell'acqua per 48 ore e poi se ne spruzzi il suolo e le lettiere, si è certi di essere liberati dalle pulci. Impropriamente da noi si chiamano erborinn quelle piccole macchie, che troviamo nello stracchino di Gorgonzola, le quali sono nè più nè meno che muffa. In un'antica Cronica milanese troviamo che «Menina Briancea fu l'inventrice della salsa verde, che fassi ottima a Milano nel Monistero Maggiore da quelle sante mani di donna Anastasia Cotta.» Si può essicarlo per l'inverno, e secco triturarlo colle mani e conservarlo in bottiglie ben turate. Gl'inglesi e gli americani fanno molto uso della polvere del seme di prezzemolo nelle salse, zuppe ed intingoli.
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. Plinio dice che non solo il prezzemolo è un cordiale per gli uomini, ma lo è anche per i pesci: Pisces quoque, si aegrotant in piscinis, apio
Pianticella annuale gramignacea, aquatica, originaria della China e delle Indie Orientali, che dà il grano da tutti conosciuto. Il suo nome, riso, dal greco Oryza, derivato anch'esso dall'arabo Eruz. Dopo il frumento è l'alimento più sano e nutritivo. Il riso nasce, vegeta e matura nell'acqua, ed ama tutta la pompa del sole: non può vivere senz'acqua e senza sole. Nel linguaggio dei fiori: Ricchezza. Si coltiva dappertutto. Il riso per essere bono, dev'essere novo, ben mondato, ben netto, grosso, bianco, che non sappia di polvere nè d' altri odori. Il riso di più difficile cottura è il più saporito. Col riso si fa pane, il quale è assai bianco e di bon gusto, ma non s'inzuppa bagnandolo. Ma l'uso principale del riso è nella cucina. Nazioni intere se ne fanno il loro nutrimento quotidiano. Il Pilao dei Cinesi non è che il riso. Si coce da noi ogni giorno in minestra, al grasso, al magro, col burro, col latte, coll'olio. Si mescola con ogni sorta di legumi, erbaggi e carnami, se ne fanno torte, pasticci, frittelli, tortelli. Universalmente lo si fa cocere sino all'intero disfacimento, solo da noi si mangia, come si dice, al dente. Sarà forse per effetto di assuefazione, ma da noi lo si trova più saporito così. La cucina milanese, à dato al mondo col riso quel capolavoro che si chiama Risotto, il vero monopolio del quale, per quanto si sia fatto, non si è ancor tolto dalle mani dei veri Milanesi. Alcuni asseriscono che da noi il riso venne introdotto nel secolo XVI, ma è certo che in Italia invece era anticamente conosciuto. Plinio scrive che in Italia
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. Universalmente lo si fa cocere sino all'intero disfacimento, solo da noi si mangia, come si dice, al dente. Sarà forse per effetto di assuefazione, ma da noi lo
La scorzonera è una pianticella erbacea, della famiglia delle cicorie, della quale si mangiano le radici. Se ne conoscono 8 varietà. Da noi solo due se ne coltivano. La bianca (tropogon porrifolium), che è annuale, e si semina in primavera, per raccoglierne le radici in ottobre ed in seguito, e vuole terreno profondo e grasso. La virtù del seme è di 2 anni. È dolce e si fa friggere e conciare con burro come i legumi e in insalata. L'altra, la nera o salsifino (scorzonera hispanica) è meno coltivata delle precedenti, perchè meno preferibile. È biennale, e produce una lunga e carnosa radice a pelle nera e carne bianca, di gusto amaro, che mangiasi pure a mo' dell'altra. Si semina egualmente, à fiori violacei in luglio. Nel linguaggio dei fiori: Rozzezza. Benchè biennale, nel secondo
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La scorzonera è una pianticella erbacea, della famiglia delle cicorie, della quale si mangiano le radici. Se ne conoscono 8 varietà. Da noi solo due
perde di bontà. Gli uccelli sono assai ghiotti del suo seme. La specie humilis dà fiori dei quali si cava una tintura color nero. Alla prima specie (tropogon) appartiene quella così detta barba di becco barba di prete (tropogon pratense) in milanese barbabicch o erbabicch od anche bassabìcch. Alcuni la vogliono originaria dalla Siberia, ma pare invece che sia della Spagna, come lo indica anche il suo cognome hispanica, la quale si ritiene pure la sola vera scorzonera. Il suo nome viene dal colore della sua scorza. Il medico portoghese Nicolò Monardes, scrive che la scorzonera fu scoperta solo verso la metà del secolo XVI ad Urgel in Catalogna, in una località detta il Monte Bianco. E racconta che quel paese era molestato ed invaso da serpi velenose, dette scorzoni, e che un moro d'Africa curava i morsicati colla sua radice. Da qui il medico portoghese inferisce che venne il suo nome di scorzonera, cioè erba atta a guarire dagli scorzoni che, a sua detta, muoiono subito se si riesce a metterla loro in bocca. Ve la do come l'ò trovata su un libro stampato a Venezia appresso Francesco Zilletti nell'anno 1582.
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la sola vera scorzonera. Il suo nome viene dal colore della sua scorza. Il medico portoghese Nicolò Monardes, scrive che la scorzonera fu scoperta solo
Insalata di scorzonera. — Pulita e bollita la scorzonera in molta aqua, perchè vi perda l'amaro, levatele il fusto centrale, tagliatela a pezzi e conditela con olio, aceto, sale, pepe e poco zuccaro. Preparate questa insalata tre ore prima del pranzo e solo al momento di servirla, lasciate sgocciolare tutto il liquido che vi sarà raccolto al fondo, aggiungetevi olio e rimestatela bene.
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conditela con olio, aceto, sale, pepe e poco zuccaro. Preparate questa insalata tre ore prima del pranzo e solo al momento di servirla, lasciate
. In Grecia, teste Galeno, lo si mangiava in insalata: oleo et aceto confecto: ma da molti veniva creduto produrre epilessia e cecità. Plutarco ci ricorda che era proverbio: abbisognare di sedano quelli che sono male in gamba: qui deplorata sunt valetudine. I Romani s'incoronavano di sedano nei conviti onde preservarsi dall'ebbrezza. Il sedano lo si vuole un leggero eccitante, lo si può ritenere non solo sano, ma un vero medicamento. In Inghilterra lo si prescrive in uso giornaliero alle persone nervose, onde fortificarle. Calma e combatte le palpitazioni, ed è utilissimo nelle affezioni reumatiche. Alle tavole inglesi si trova la polvere dei semi di sedano grattugiata come il cren, macerata nell'aceto con un poco di sale. Da noi il sedano lo si mangia per gradito antipasto. Con la polvere del suo seme, meglio del selvatico, se ne fa un unguento per i pidocchi.
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conviti onde preservarsi dall'ebbrezza. Il sedano lo si vuole un leggero eccitante, lo si può ritenere non solo sano, ma un vero medicamento. In
Il sedano o selino è pianticella erbacea, biennale, indigena, à radice tuberosa, di sapor forte, piccante, odore aromatico, nasce naturalmente nelle paludi torbose del Po, si semina in primavera, si trapianta. Il seme dura per 8 anni. Ama bona esposizione, terra grassa, copiosi inaffiamenti. Si imbianchisce rivestendolo e rincalzandolo di terra, si difende dal freddo coprendolo collo strame. Nel linguaggio delle piante: Spiritosità. Diverse varietà, le migliori il bianco e violetto a costa ripiena, il sedano rapa (apium radice rapacea) à la radice che si gonfia e raggiunge ragguardevoli proporzioni. Il sedano è della famiglia del prezzemolo e serve tanto la foglia che la radice, a condire com'esso e a dar sapore a legumi, verdure, carni, ecc.; entra in molte salse. Lo si mangia crudo con pepe, sale ed olio ed in insalata. Lo si frigge, massime il sedano rapa (del quale si mangia solo la radice), lo si cuoce in stufato, se ne fa un delicatissimo purè. A Napoli lo si chiama accio (da Appio). Il sedano e massime il seme è eccitante e per alcuni indigesto. In Oriente è usato il seme contro il mal di mare. Fino dal tempo di Ippocrate, veniva usato per soffumigi contro l'emicrania:
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, ecc.; entra in molte salse. Lo si mangia crudo con pepe, sale ed olio ed in insalata. Lo si frigge, massime il sedano rapa (del quale si mangia solo la
La segale è pianticella germinacea, annua, indigena. È il cereale dei paesi freddi, montuosi. Si semina in autunno e raccogliesi nell'estate vegnente. Nel linguaggio dei fiori: Bisogno. Matura più presto del frumento. La segale è meno nutritiva del frumento e meno atta a far del pane che riesce umidiccio e di diffìcile digestione. Viene nullameno usata a far pane nel Belgio, nell'Olanda, nella Germania settentrionale e specialmente in Russia dai poveri contadini. Mista però alla farina di frumento rende il pane più bianco e saporito e lo conserva fresco più a lungo. Viene pure mescolata col melgone. Messa nell'aqua, la farina di segale serve per bevanda rinfrescante e nutriente per il bestiame. La farina di segale è pure adoperata in medicina per uso esterno come mollificante e risolutivo. In Russia se ne fabbrica una specie di birra nazionale, chiamata Quass. In Groenlandia questa birra la chiamano Tollwasser (aqua che fa impazzire). La paglia lunga e forte, per la molta silice che contiene, è utilissima a coprire capanne campestri, tettoie, grondaie, ecc. Una specie di malattia che sopravviene al grano della segale, dà una grande importanza a questa, nella medicina, sia come generatrice di morbi, sia come potentissimo sussidio terapeutico ed ostetrico, ed è quella conosciuta sotto il nome di segale cornuta o chiodo segalino, in francese ergot. Il suo nome dal celtico segàl che significa falce, d'onde in latino il nome generico segestes alle biade, che si falciano, mentre i legumi e le frutta si colgono. La segale non pare fosse conosciuta dai Greci, nessuno dei loro scrittori ne parla. Dei Latini il solo Plinio ne fa menzione, ma come di grano infimo e di nessun conto.
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legumi e le frutta si colgono. La segale non pare fosse conosciuta dai Greci, nessuno dei loro scrittori ne parla. Dei Latini il solo Plinio ne fa
Il sesamo, detto anche giuggiolena, è pianticella annuale. Si propaga per semi, vuol terra sciolta e pingue e viene sotto l'azione del gran caldo e dell'umido. Nel linguaggio dei fiori significa: Indifferenza. Ve ne sono 5 varietà. L'orientale, cresce spontaneamente nei terreni secchi ed aridi dell'India, del Ceylan, del Malabar, e s'accomoda facilmente nei suoli fertili. Fornisce un fusto alto un metro, diritto, erbaceo, quasi cilindrico, assai ramoso, foglie verdi, fiori bianchi o color rosa in giugno. I semi di esso col calore e colla pressione forniscono il 48 per cento di olio che è cosi limpido e gustoso da rivaleggiare colle migliori qualità dell'olivo, per le quali viene sovente venduto, essendo l'olio di sesamo riconoscibile solo per contenere meno sostanza. Inoltre l'olio di sesamo à il merito di non mai irrancidire. Il vantaggio dell'olivo su questa pianta, è quello di poter allignare anche in luoghi erti
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limpido e gustoso da rivaleggiare colle migliori qualità dell'olivo, per le quali viene sovente venduto, essendo l'olio di sesamo riconoscibile solo
Il tartufo è un tubero dalla superficie oscura e scabra, dall'interno chiaro e scuro, a seconda della qualità, dall'odore aromatico, dal sapore superlativamente ghiotto. Nel linguaggio delle piante: Tesoro. La storia del tartufo è d'una antichità pressochè biblica. Ma, concesso pure che i Dudhaïm portati a Lia dal figlio Ruben non fossero tartufi, come pretendono Carduque e Daniel, è certo che gli Orientali, nelle loro regioni sabbiose, ànno conosciuto di bon'ora il tartufo del deserto, quello che i Siri di Damasco, al dire di Chabreus, trasportavano sui cammelli e che è ancora, per gli Arabi dell'Algeria, un cibo ricercato. Questo squisito tubercolo compariva già fra le più prelibate ghiottonerie dei Faraoni. Le conquiste, le emigrazioni ed il commercio ne estesero l'uso ai Greci e poi ai Romani. Aristotile e il suo discepolo Teofrasto, tre secoli avanti l'êra volgare, divinarono la sua natura vegetale e autonomica, anzi quest'ultimo dice, che a Mitilene crescevano per le inondazioni del Tiaris, che vi portava le sementi di queste produzioni sotterranee, eh' egli chiama mysi. Plinio, eco dei pregiudizii del suo tempo e di quelli di Plutarco, racconta che Laerzio Licinio Pretore di Spagna, in Cartagine si ruppe gli incisivi masticando un tartufo che conteneva una moneta e chiama il tartufo un bitorzolo, un escremento della terra, vitium terrae. E per molto tempo, suffragante la dottrina di Galeno, indusse l'errore, che i tartufi fossero l'effetto dell'azione combinata degli elementi e del tuono, e si chiamavano gènègès, ossia figli della terra e degli Dei. Et faciunt lautas optata tonitrua coenas, cantava dei tartufi il Poeta d'Aquino. Una serie di spropositi accompagnarono il tartufo attraverso il Medio Evo fino a noi. Chi lo chiamò un fungo, chi asserì fosse una certa tuberosità di certe radici, chi la trasudazione degli alberi, chi fosse una specie di galla, di muffa, chi infine insegnò fosse un prodotto del morso di certe mosche od insetti su organi vegetali. Non fu che dopo duemila anni e coll'aiuto del microscopio, che gli scienziati giunsero a persuadersi che il tartufo è un vegetale vivente di vita propria, e che possiede grani, o semi vitali di riproduzione. Claudio Geoffroy nel 1711, fu il primo a darne all'accademia delle scienze in Francia, la notizia, e Micheli, pochi anni dopo, ne dava il disegno. Ammessi i semi, nacque naturalmente l'idea di ottenerne la riproduzione artificiale. I primi tentativi vennero fatti nel 1756 da Brandley in Inghilterra, dal Conte di Borch nel 1780 in Piemonte, da Bornholz in Germania nel 1825 e verso il 1828 dal Conte di Noè in Francia. La teoria della riproduzione artificiale fu sostenuta tra gli altri dal milanese Vittadini (Monographia tuberculorum, Milano, 1831). «Se volete dei tartufi, seminate delle ghiande di quercia.» Questo aforismo del conte De Gasparin riassume l'esperienza di oltre sessantanni. Nel 1834 un botanico, M. Delastre, fece conoscere al Congresso scientifico di Poitiers il fatto, allora paradossale, della riproduzione artificiale dei tartufi coi semi di quercia. La scoperta è dovuta a un semplice contadino, Gaspare Talon, il cui figlio Ilarione è oggi, grazie ai tartufi, milionario. Il campo della scoperta è in Francia e precisamente la pianura detta di Scilla, vicino a Croagne, ove Scilla sbaragliò del tutto i Cimbri ed i Teutoni, dopo la grande vittoria che Mario aveva riportato su quei barbari nelle vicinanze di Aix. Tale scoperta consiste in ciò, che piantando dei semi di quercia, vale a dire rimboscando di quercie il terreno ove alligna il tartufo, se ne ottiene una periodica e certa raccolta. Del come poi i semi vengono fecondati e nutriti, del come vengono portati, dove si sviluppano, è ancora l'X incognita degli scienziati. Questo solo si sa, che il tartufo nasce, vive e prospera dovunque prospera la vite, ove il terreno è argilloso, calcareo e dove la quercia è la principale vegetazione arborescente del paese. Difficilmente lo si trova fuori del raggio degli alberi, sicchè pare che se non parassita, trovi molto comodo passare la sua vita fra le loro radici. Teme la troppa ombra e l'asciutto. Le sue simpatie sono per la Quercus Alba, la Coccifera o Kermes, l'llex, la Peduncolata, la Ruber (rovere). Ne à però di straforo anche per la noce, pel faggio, la betulla, il cedro, il ginepro, la rosa, il pino silvestre, la pescia (Abies), per il pruno, il biancospino, il sorbo, il carpine (Carpinus betula) e raramente pel castano. Due sorta di tartufi si ànno, l'oscuro ed il bianco. Il primo si vuole sia l'unico, vero tartufo, l'altro il falso tartufo delle sabbie e del deserto. Si vuole ancora che il tartufo sia sempre bianco allorchè non à raggiunto la sua maturanza, e che raggiungendola diventi oscuro. Pare invece sia questione di terreno e di alimentazione, come pure da ciò dipende l'abbondanza o deficienza del suo aroma, che da noi sono più saporiti e delicati i bianchi, degli oscuri.
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degli scienziati. Questo solo si sa, che il tartufo nasce, vive e prospera dovunque prospera la vite, ove il terreno è argilloso, calcareo e dove la
Fu nel Medio Evo e in Italia che si incominciò a impiegarvi il porco. Il Platina, del secolo XVI, nel suo libro De honesta uoluptate dice, che niente raggiunge l'istinto della scrofa di Norcia per scoprire i tartufi sotto terra. Dall'Italia questo modo passò in Francia dove il porco venne chiamato, con stile poetico, porc de course, couchon levrier, e il porco è ancora il principale agente di questa caccia. Un altro ausiliario del ricercatore dei tartufi è il cane. L'uso del cane è antichissimo, e naque pure in Italia. L'Inghilterra, dove il tartufo è poco comune, la Germania stessa, la Francia, ànno avuto da noi i barbini, come maestri modelli nell'arte. Nel 1724 il conte di Wakkerbart li portò in Sassonia a farne la caccia a Sedlitz. Augusto II re di Polonia, nel 1720 ne fece venire dall'Italia dieci che costarono cento talleri ciascuno. Fu pure un italiano, Bernardo Vanini, che ottenne il monopolio dei tartufi nel Brandeburgo, coll'obbligo di fornirne la cucina di Corte. Anche il Würtenberg ebbe due barboni dalla corte di Torino e in Germania vennero di moda e si chiamavano truffel-hunde, e canes tuberario venatici. Anche altre razze di cani sono suscettibili di questa educazione. L'uomo pure, di fine odorato, può fare questa caccia. La terra sollevata in certi punti, o presentante una fenditura, tradisce la presenza del tartufo più vicino al suolo e più precoce. Provatevi, e se non troverete il tubero, troverete certamente.... un sasso. Altra spia del tartufo è una certa specie di mosca detta helomyza (da helmius, verme) tuberivora, più lunga delle mosche comuni, d'un colore giallo-rosso, colle ali color fumo e macchiate di nero e che à il volo lento e permette di seguirla. La si vede quasi sempre solitaria sorvolare sul punto che cela il tartufo maturo, e del quale è ghiotta. È questa mosca, ed altre sue parenti prossime, che diedero ad intendere per molto tempo, essere i tartufi una particolare loro produzione, mentre invece ne erano le divoratrici. Fra questi segnali, il più conosciuto è l'ingiallimento, lo stato morboso ed anche la morte delle piante erbacee e dei piccoli arboscelli che vegetano sul luogo del tartufo. L'epoca della raccolta del tartufo in Francia è da novembre a marzo, ma sopratutto nel periodo di Natale. Ne sono ricche la Provenza, la Linguadoca, il Querey, il Pèrigord ed il Poitu. Il tartufo nero, o la melanospora è comune in Italia, Francia, Spagna, va fino in Inghilterra, a Rudloe nel Wiltshire, nella Sassonia e nell'Austria. Ne sono abbondanti da noi le montagne della Sabina e sopratutto Norcia. Il sapore, l'aroma ed il colore variano a seconda dei paesi. Quella di Piemonte è bianca e sarebbe il tuber hyemalbum. Pare che la bianca sia più propria dei paesi del Nord, o per lo meno la vi si trova più frequente. Avvi anche il tartufo rosso (tuber rufum) che in Provenza si chiama mourre de chin (muso di cane) che per il suo odore speciale è rigettato dal commercio. Vi à il falso tartufo, la genea verrucosa detta in Piemonte cappello di prete, il melanogaster variagatus, o muscato, la balsamia vulgaris, detta rosetta da noi. Si mangiano dai pochi intelligenti. Il solo tartufo falso che sempre si mangiò e si mangia ancora dagli Arabi è la terfezia leonis, o tartufo del deserto e delle sabbie. Dev'essere di quest'ultima specie il tartufo cucinato dai Romani che serviva a dar sapore alla salamoja e ad altre irritamenta gulae. Gli Ateniesi concedettero ai figli di Cherippo la cittadinanza, per avere introdotto un nuovo modo di cucinare i tartufi. L'Archistrato, o capo-cuoco in Atene, faceva servire alla fine del pranzo dei tartufi cotti col grasso, sale, ginepro e canella, e spruzzati di vino del Chjo. Cecilio Apicio, il celebre cuoco che viveva sotto Trajano, ci à lasciato varie ricette dei tartufi nella sua De re culinaria. Avicenna, oracolo della medicina d'allora, raccomanda di pelare i tartufi e di tagliarli a pezzi, farli bollire con aqua e sale, poi farli cocere con erbe aromatiche e servirli colla carne salata. Marziale antepone i funghi ai tartufi dicendo:
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Piemonte cappello di prete, il melanogaster variagatus, o muscato, la balsamia vulgaris, detta rosetta da noi. Si mangiano dai pochi intelligenti. Il solo
Teofrasto dice che i tartufi di Grecia erano insipidi. Avicenna vuole che i migliori tartufi abbiano il colore della sabbia del deserto. I sacerdoti d'Esculapio furono i primi a farne delle bizzarre e strane applicazioni. Venute a conoscersi le virtù del tartufo da Podalinio e dal centauro Chirone, solo i ricchi potevano aquistarlo per l'enorme prezzo a cui era salito. Il tartufo, com' era cibo ghiotto dei Greci e dei Romani, lo divenne, al tempo delle crociate, nelle Corti di Spagna, Toscana e in quella papale di Avignone e Roma. Dalla Spagna, il tartufo passa alle mense francesi nel secolo XVI, ma fu misconosciuto allora, ed il poeta Descamps, che viveva sotto Carlo VI, compose contro il
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, solo i ricchi potevano aquistarlo per l'enorme prezzo a cui era salito. Il tartufo, com' era cibo ghiotto dei Greci e dei Romani, lo divenne, al
tartufo una ballata, perchè avendone mangiato troppo gli produssero una colica. Ancora nel 780 era raro a Parigi. Nel secolo XVI l'uso del tartufo era frequente in tutta Italia. Il Mattiolo ne parla come di un piatto prelibato di grandi case. Platina, l'istoriografo dei Papi, vanta quelli di Norcia nell'Umbria, dove nella vicina Bevagna doveva nascere di lì a poco Alfonso Ceccarelli, celebre autore dell'opuscolo sui tartufi. E il tartufo che era già comparso ai fins soupers de la Regence e del Direttorio, diventa ospite pressochè quotidiano alle mense dei marescialli dell'impero e trova in Brillat-Savarin il suo corifeo ed il suo poeta. Egli lo chiama il Diamante della cucina, Dumas s'inchina profondamente davanti al tartufo, lo adora, e nella sua adorazione non può che ripetere che il tartufo è il sacrum sacrorum. Invano i suoi nemici, la medicina ed i casisti, lo combattono. Avicenna dice che occasiona l'apoplessia e la paralisi — altri che genera la melancolia e la lebbra — altri, che è uno stimolante afrodisiaco. Il tartufo s'impone come cibo salubre, nutriente ed eccitante la digestione, quando è preso in debita misura. «Che ne pensate voi del tartufo?» domandava un giorno Luigi XVIII al suo medico Portal. «Scommetto che voi lo proibite ai vostri malati!» — «Sire, io lo credo un poco indigesto,» mormorò Portai. — «Il tartufo, dottore, non è ciò che pensa il volgo,» soggiunge il re e ne fe' sparire un bel piatto. Talleyrand intratteneva spesso Napoleone sui modi migliori di cucinarli. Byron li adorava, li mangiava sempre coi maccheroni e il grande poeta diceva di non voler mangiare i maccheroni coi tartufi, ma i tartufi coi maccheroni. George Sand chiamò il tartufo, che stimava assai, la pomme de terre fèerique. Rossini, da quel ghiottone ch'era, ne andava pazzo; è a lui che si deve l'invenzione della salade aux truffes. Il tartufo ammuffito produce vomiti ed acute coliche con altri malori cagionati dal parassita che vi nasce. Il tartufo à solo due difetti, di essere indigesto se se ne mangia troppo, e di essere caro. Michele Savonarola raccomanda agli intemperanti in fatto di tartufi, di temer Dio se non temono la colica: consiglio che agli epicurei non à mai fruttato un corno.
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parassita che vi nasce. Il tartufo à solo due difetti, di essere indigesto se se ne mangia troppo, e di essere caro. Michele Savonarola raccomanda agli
La virtù germinativa dei semi è di 6 anni. Nel linguaggio dei fiori: Ampolloso. La zucca è eminentemente prolifica. Nell'America settentrionale una sola pianta della zucca somministra alle volte tanti frutti di un peso tale, che uniti insieme passano i 20 quintali. Le varietà più coltivate sono: la verde lunga, internamente bianca. La bianca tonda, internamente gialla — quella a turbante, a corteccia strisciata di giallo, bianco e rossa — quella a trombetta, verde all'esterno, ambedue gialle all'interno — finalmente la verde quarantina, bianca internamente. Àvvene una specie anche perenne (cucumis perennis), che si coltiva in vaso, ma resiste anche in terra, quando venga difesa dal freddo e non ama come le altre il sole. Proviene dal Texas e dalla California. La zucca ama il caldo e l'aqua, della quale ne contiene l'80 per cento. Dalla zucca se ne può cavar zuccaro. Nel 1837, in Ungheria, se ne stabilì una fabbrica, non di zucche, ma di zuccaro. Le sue foglie verdi strofinate sugli animali ne fugano le mosche ed i tavani, come pure, bruciate secche, allontanano le mosche. Dai semi se ne ricava un olio verdastro combustibile e commestibile. Le zucche sono alcun poco medicinali. L'aqua espulsa dalla sua polpa è rinfrescativa al pari del siero del latte. Della polpa se ne fa un unguento che dicesi superare il malvino, il che è tutto dire ! I semi freschi vengono pure adoperati per scacciare la tenia (vermen solitari), forse l'unica cosa bona che possono fare le zucche, perchè riguardo al sapore è sempre... sapore di zucca. I Greci ed i Latini parlano tutti della zucca, ma tutti convengono in questo solo, che per mangiarla bisogna condirla, perchè da sola... è sempra zucca. Aulo Gellio ci racconta che perfino il filosofo Tauro la maritava a cena colle lenti, ed era un filosofo! La zucca non ricerca molta scienza nell'agronomo. Il botanico Scopoli à scritto l'istoria della zucca e degli usi suoi economici. La zucca cresce senza pretese, non ambisce onori, offresi generosa e spontanea alla mano dell'uomo, che in contraccambio la deride in un coll'asino. Mi sono rivolto ad un mio tenerissimo amico, professore in una delle nostre Università, chiedendogli il suo parere sul gusto, sulla maniera di servirsi delle zucche, sugli usi culinari e domestici, ecc. Vi do la sua risposta tale e quale:
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riguardo al sapore è sempre... sapore di zucca. I Greci ed i Latini parlano tutti della zucca, ma tutti convengono in questo solo, che per mangiarla
Capisco la satira. Trattandosi di zucche, ti sei rivolto ad un professore. Ebbene, non ti sei male apposto. Sappi che le zucche più vuote di questo mondo possono elevarsi alla più alta aristocrazia non solo di censo e di gradi sociali, ma altresì alla più alta aristocrazia culinaria. Tu potresti apprestare a' tuoi amici un abbondante, gustoso e variato pranzo quasi colla sola zucca, vale a dire che essa formi d'ogni piatto, se non l'unico, almeno il principale coefficiente. Sono note le minestre di zucca d'ogni specie e fresche secche. La si fa cocere nel brodo, nell'aqua e burro, ovvero nel latte. Se ne rileva il sapore con erbuccie, ova, spezie e collo zuccaro. La polpa delle zucche ed anche i fiori si mangiano fritte, ripiene, accomodate, triffolate, in fracassèe, in stufato ed in polpette. Se ne fanno torte, pasticci e perfino salami. Colle, piccole zucchette lessate o cotte alla brage, o colle tenere ci-, me delle piante bollite nell'aqua, si fa dell'insalata che si condisce coll'olio degli stessi semi della zucca. Il sugo di essa, fermentato, può fornire l'aceto. Colla zucca confettata con miele ed aromi, si provvede al dessert di saporite mostarde e confetture, che si rende ancor più vago abbellendole con piccole zucchettine imitanti le pera, le poma, gli aranci. Il pane si forma colla zucca ben cotta, impastata con la terza parte di farina. Finalmente coi semi di zucca puoi comporre orzate e simili gustose bevande. Che se questo simposio, vuoi prepararlo a' tuoi amici all'aria aperta, lo potrai gentilmente offrire sotto un pergolato coperto colle foglie di una pianta di zucca. Che ne dirò poi delle zucche vuote ? Colla scorza di esse puoi farne bottiglie, bicchieri, piatti, cucchiai, forcine, coltelli, mestole, saliere, lucerne ove arda l'olio del seme suo, recipienti d'aqua, di vino, di liquori, tabacchiere, pipe e quello che vuoi. Le zucche vuote poi servono mirabilmente a sorreggere i mal pratici o novizi nuotatori. A questo proposito, vo' narrarti un aneddoto di Bellavitis e faccio punto. Bellavitis, mio illustre e celebre collega dell'Università di Padova, ora defunto, veniva un giorno supplicato da uno studente perchè gli fosse propizio nell'esame: Veda, professore, insisteva lo studente, se io non passo questo benedetto esame, ò l'inferno in casa mia! Sarei costretto a buttarmi in Brenta. Al che Bellavitis: Oh no xe pericolo per lu, perchè el sa che le zucche ì galleggia! Insomma, io non mi perito a chiamare la zucca la più utile delle verdure ed è ingiusto adoperare il suo nome per insultare alle teste umane. Rispetta dunque le zucche e cava loro tanto di cappello. Lo cavi a tante nullità coperte coi galloni di prefetto, di senatore, di generale ! Un bacio e vale.
Il re dei cuochi della cucina vegetariana
mondo possono elevarsi alla più alta aristocrazia non solo di censo e di gradi sociali, ma altresì alla più alta aristocrazia culinaria. Tu potresti
luoghi inondati e dove si coltiva ancora. Somiglia alle nostre canne, si alza portando una panocchia setacea che dà fiori. Esternamente è verdiccia, articolata; interiormente, bianca e ripiena di una mollica simile a quella del sambuco, pregna d'un sugo dolce, piacevole. À foglie strette, striate, verdi, che servono ad alimento delle bestie. La piantagione si fa per barbocchi, da marzo a tutto aprile. Può essere coltivata in tutti i paesi caldissimi. Da noi, è da serra. È matura quando diventa gialla, il midollo si è fatto bigio scuro e il sugo viscoso e dolcissimo. La parola zuccaro, dal greco sacchar, zuccaro. Nel linguaggio delle piante: Dolcezza. La canna dello zuccaro, matura, si taglia al piede, se ne tronca la panocchia, si sfoglia, si porta al molino, che la schiaccia fra tre cilindri. Se ne raccoglie il sugo entro una caldaia sottoposta, e tal sugo è chiamato dai negri vezù o vino di canna. Presto fermenta, e perciò è necessario cocerlo prontamente e depurarlo con un processo di evaporazione e filtrazione, sinchè è ridotto allo stato di sciroppo, d' onde il melazzo o melassa. Gli zuccari della seconda e terza cristallizzazione, sono sempre più grassi ed oscuri, e passano sotto il nome di mascabadi. Quelli d'Avana, che sono i migliori, si chiamano terzieri o biondi. Lo zuccaro, benchè di prima estrazione, bianchissimo ed asciutto, contiene impurità, e vuol essere raffinato. Questa depurazione si fa nelle grandi raffinerie, da dove sortono in pani. La bianchezza e solidità estrema dello zuccaro in pani, dipende non solo dalla qualità degli zuccari che si adoperano, ma ancora dall'esito felice dell'operazione e dall'espertezza dell'operatore. Se i pani riescono, friabili o macchiati qua e là, o troppo oscuri, e quindi da scarto, allora si pestano ed entrano in commercio sotto la denominazione di zuccaro raffinato in polvere, ossia pile. Lo zuccaro raffinato in pane è bianchissimo, senza macchie, compatto, duro, sonoro; percosso con un ferro nell'oscurità, tramanda della luce; la sua cristallizzazione è minutissima, serrata e lucida, non à odore, è dolcissimo. Se si tiene in bocca diventa poroso e non si scioglie uniformemente. Cristallizzato lo zuccaro in forma cubica con altro processo di evaporazione, si vende sotto il nome di zuccaro candito. Questo è sempre più o meno colorato, tramanda molta luce percosso nell'oscurità, è assai dolce, e si scioglie in bocca uniformemente come le caramelle. La melassa, in America ed altrove, s'adopera per la fabbricazione del rhum e nel Brasile l'impiegano per la concia del tabacco. Per ottenere il rhum, si fa fermentare la melassa entro grandi vasi di terra, sepolti nel terreno fino all'orifizio e ricoperti di paglia. Compiuta la fermentazione, si passa alla distillazione.
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solidità estrema dello zuccaro in pani, dipende non solo dalla qualità degli zuccari che si adoperano, ma ancora dall'esito felice dell'operazione e dall
Nè lo zuccaro si estrae solo dall'arundo saccarifera. Abbiamo lo zuccaro di barbabietola, di castagne, d'uva, di latte, e trovasi pure nei succhi di molte piante, nelle radici, nei frutti e persino nelle carni di animali. Il diverso sapore o colore dipende dalla sua purezza, dal grado più o meno intenso di dolcezza, perchè da qualunque origine pervenga, quando è puro, è sempre la stessa cosa e non avvi differenza tra zuccaro e zuccaro. La scoperta dello zuccaro di barbabietola è dovuta al tedesco Margraff; il primo ad estrarlo in grande fu Achard di Berlino. Il metodo per ricavarlo, dopo ripetute esperienze, è stato perfezionato in Francia. Non si riduce che con estrema difficoltà alla bianchezza, asciuttezza e cristallizzazione di quello di canna. Anche da noi abbiamo tali fabbriche. Quello di castagne è di una cristallizzazione assai minuta, è molle, biondo, dolcissimo con legger sapore di castagna: si può ridurlo in pani. Lo zuccaro di latte si fabbrica in grande nella Svizzera, è bianchissimo, cristallizzato in piccoli cubi, poco solubile nell'aqua fredda, solubilissimo nella calda, di sapore dolciastro, senza odore quando è ben puro. Si adopera come alimento e come medicamento. Lo zuccaro di uva non à forma regolare, è in piccoli tubercoletti, in bocca produce prima una sensazione di fresco, indi un sapor zuccherino debole, così che ne abbisogna doppia quantità. Lo spirito di vino e l'aqua lo sciolgono più a caldo che a freddo. Questi zuccari ebbero interessante commercio in Europa al tempo del famoso blocco di Napoleone. Oggi quello solo di barbabietola à larga parte in commercio. Lo zuccaro si adultera con spato pesante, gesso, creta, farina, destrina, ma queste frodi sono possibili solo collo zuccaro in polvere od in pezzi (pile) e si devono in generale attribuire ai negozianti rivenditori. Del resto, tali materie si tradiscono facilmente, perchè sono insolubili. Acquistate il vostro zuccaro in pani, o madri di famiglia, perchè in pani, la frode è quasi incompatibile colle singole e molteplici operazioni di quest'industria. Lo zuccaro si sofistica pure col glucosio. Il glucosio è altra delle varietà di zuccaro e si prepara generalmente trattando l'amido, o fecola di patate con acido solforico o cloridrico. Quando è chimicamente puro, cioè affatto esente da sostanze eterogenee, non presenta altra differenza dello zuccaro di canna se non che nella sua virtù dolcificante, la quale sarebbe un terzo appena. Ma raramente il glucosio è purissimo, e spesso lo si trova nello zuccaro grasso, a cui si ricorre per economia. Oltre alla mancanza di sapore, c'è a temere sia nocevole; attenetevi dunque allo zuccaro in pani. L'adulterazione dello zuccaro col glucosio è fatta su una scala enorme in America.
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Nè lo zuccaro si estrae solo dall'arundo saccarifera. Abbiamo lo zuccaro di barbabietola, di castagne, d'uva, di latte, e trovasi pure nei succhi di
a Conserve e sciroppi vanno tenuti in luoghi asciutti e freschi. I recipienti siano di terra o di vetro e prima bene asciugati; l'umidità del solo recipiente, è molte volte causa della fermentazione delle conserve, e quando fermentano, bisogna di nuovo farle bollire, altrimenti inacidiscono.
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a Conserve e sciroppi vanno tenuti in luoghi asciutti e freschi. I recipienti siano di terra o di vetro e prima bene asciugati; l'umidità del solo